martedì 22 aprile 2008

Una minaccia per i posti di lavoro?

Una delle obiezioni contro l'abolizione della carne è che essa, comportando una diminuzione dei posti di lavoro, costituirebbe una minaccia per l'impiego. Eppure, le fluttuazioni del mercato e la tecnicizzazione sempre crescente del lavoro agricolo sono già causa di licenziamenti e chiusura di attività.

Per esempio, all'inizio di aprile 800 persone hanno manifestato a Pontivy in Bretagna contro la chiusura di un mattatoio di tacchini: 238 persone rischiano di perdere il posto di lavoro a causa di un passaggio di proprietà che ha portato alla chiusura dello stabilimento, per il quale non si è trovato un compratore.

Stando al 5° censimento generale dell'agricoltura portato a termine dall'ISTAT alla fine del 2000:

«Alla data del 22 ottobre 2000, le aziende agricole italiane che praticano l’allevamento di bestiame risultano essere 675.835, pari al 26,1% del totale. Si tratta di un dato inferiore del 35,2% a quello rilevato nel 1990, che indica l’abbandono della pratica zootecnica da parte di un gran numero di aziende. L’analisi per classe di superficie totale mostra, tuttavia, che la contrazione ha interessato in misura assai più notevole le aziende piccole e medie (fino a 10 ettari) e in misura più ridotta le aziende di grandi dimensioni (oltre i 10 ettari).» (I principali risultati)


In altre parole, le piccole aziende chiudono, probabilmente a causa della concorrenza delle grandi, e i piccoli allevatori perdono la loro attività per colpa della ristrutturazione dell'industria. Si potrebbe accogliere il dato come positivo, in direzione di un'estinzione dell'allevamento, se non fosse che alla diminuzione del numero di aziende agricole non corrisponde una diminuzione proporzionale degli animali allevati. Infatti, il medesimo documento afferma che:

«Il ridimensionamento del comparto zootecnico appare evidente anche in termini di consistenza degli allevamenti, benché le riduzioni del numero dei capi siano state generalmente meno marcate di quelle delle aziende che li allevano. [...] Per effetto delle dinamiche relative al numero di aziende allevatrici e al numero di capi di bestiame allevati le dimensioni medie risultano significativamente maggiori nel 2000 rispetto al 1990. Il numero medio di bovini per azienda allevatrice e di 35,2 capi, mentre era di 24,1 all’epoca del precedente Censimento. etc.» (Ivi)


La diminuzione delle piccole aziende porta dunque ad una concentrazione maggiore di animali nelle grandi aziende, ovvero ad una intensificazione dell'allevamento industriale, i cui criteri, come è noto, consistono nel produrre la maggiore quantità possibile con i costi più bassi possibile.

Va sa sé che tali criteri mal si conciliano con la tutela dell'occupazione. Paradossalmente, proprio quelle riforme dell'allevamento che gli animalisti chiedono per migliorare la qualità della vita degli animali implicherebbero probabilmente l'effetto secondario di far aumentare la disponibilità di posti di lavoro: ma tali riforme procedono così a rilento da far pensare che l'incremento di occupazione nel settore zootecnico non occupi un posto di rilievo nell'agenda delle istituzioni europee e nazionali, non più del benessere degli animali allevati...

Di conseguenza, abolire la carne non implicherebbe probabilmente una catastrofe occupazionale, ma accentuerebbe una crisi che è già in corso per motivi strettamente economici.

D'altra parte, se la tutela dell'industria militare non è un motivo ragionevole per tollerare le guerre, non si vede perché la zootecnia, che è causa diretta ed evidente di sofferenza infinita per gli animali non umani, dovrebbe godere di una considerazione più benevola.

lunedì 21 aprile 2008

Lavorare in un mattatoio

Un commento all'articolo «Abolizione della carne» nel sito www.le69-3.org

«Non so se è pertinente o no vivere senza mangiare la carne. Ma una cosa è sicura, quando ci si trova a lavorare in un mattatoio, come è successo a me, ci si trova per forza di cose a porsi delle serie domande sul nostro modo di consumo. Vedere, nello spazio di 7 ore, da 200 a 300 bestie ammazzate, sventrate, smembrate, fatte a pezzi, e questo tutti i giorni, non lascia indifferenti. Si ha l'impressione di assistere ad una carneficina immensa. Ma la cosa peggiore restano le condizioni di lavoro di questi uomini che compiono questo lavoro orribile. È un ambiente molto duro ed avvilente.

Penso che se desiderate condurre delle azioni contro la carne, piuttosto di pubblicare testi sui siti militanti, sarebbe meglio dirigervi direttamente verso i mattatoi e tentare di sensibilizzare il personale alla vostra causa. Perché se c'è gente che avrebbe dei veri motivi per ribellarsi, sono proprio quelli che lavorano nei mattatoi».

domenica 20 aprile 2008

Reus-Comiti: Abolire la carne

L'articolo «Abolire la carne» di Estiva Reus e Antoine Comiti è apparso sul numero 29 dei Cahiers antispécistes. Il testo integrale può essere consultato qui in versione originale in francese, e qui in traduzione inglese.

Sintesi

La tesi difesa in questo articolo è che già adesso bisogna operare esplicitamente per l'interdizione legale della produzione e della consumazione della carne animale. È una misura necessaria e contemporaneamente ottenibile senza aspettare una rivoluzione della mentalità o dell'organizzazione delle nostre società.

«Non bisogna maltrattare o uccidere animali senza necessità»: ovunque nel mondo, questo precetto fa parte della morale comune. Ovunque nel mondo, il consumo alimentare dei prodotti animali è la causa principale per la quale degli umani maltrattano ed uccidono degli animali, senza necessità.

Tale precetto non è privo d'impatto: alcune persone rifiutano di consumare dei prodotti di origine animale, altre riducono il loro consumo di carne, altre ancora scelgono prodotti provenienti da allevamenti che offrono qualche garanzia sul trattamento degli animali; alcuni paesi adottano leggi di protezione degli animali di allevamento. Ma questo non basta ad invertire la tendenza: il numero di animali allevati e pescati nel mondo cresce inesorabilmente e l'allevamento industriale si diffonde.

È illusorio credere che le disposizioni adottate in favore del benessere animale finiscano per assicurare condizioni di vita e di morte decenti ai miliardi di animali mangiati ogni anno: gli allevatori possono difficilmente decidere di anteporre il benessere delle bestie alla redditività del loro sfruttamento; inoltre, non si dispone né dello spazio né della mano d'opera necessari per trattare un tale numero di animali con cura.

La presa di coscienza del fatto che la produzione di carne animale ha un impatto ambientale disastroso non condurrà necessariamente a un miglioramento della sorte riservata agli animali: se non si tiene conto dei loro interessi in quanto tali, questa presa di coscienza può al contrario sfociare in una intensificazione dell'allevamento.

Il contrasto tra i doveri che gli umani riconoscono di avere verso gli animali e il modo in cui li trattano concretamente non implica che le buone intenzioni dichiarate siano solo ipocrisia. Questo contrasto ci insegna tuttavia che il cambiamento spontaneo dei comportamenti dei consumatori non costituisce una forza sufficiente per metter fine alla carneficina. Per delle ragioni. D'altra parte, è una situazione molto comune: non si riesce neanche a risolvere i problemi della sicurezza sulle strade, dell'inquinamento, della miseria umana, del maltrattamento dei bambini etc. contando unicamente sulla capacità di ognuno a modificare le sue abitudini per portarvi rimedio, anche quando è largamente ammesso che si tratta di calamità.

Per metter termine alla sorte orrenda riservata agli animali mangiati, occorre che la questione sia posta (anche) sul piano politico. Si tratta di far ingranare un processo che si compierà attraverso l'adozione di leggi che interdicano la predazione (caccia, pesca) e la produzione (allevamento) di animali per il consumo umano. Le istituzioni pubbliche giocano inoltre un ruolo nella riconversione dei lavoratori il cui reddito dipende da queste attività.

Questo processo comincia con l'espressione pubblica della rivendicazione di abolizione della carne.